
Toscana: un weekend storico-fotografico nella Valdambra
Nel cuore della Toscana, laddove le propaggini inferiori del Valdarno toccano i declivi orientali del Chianti senese, è situata una piccola quanto amena valle. La attraversa un torrente dal suggestivo nome di Ambra.
Dal corso d’acqua deriva il toponimo del luogo, Valdambra, la quale, contornata dai placidi Colli d’Ambra, che a sud la separano dalla Valdichiana, si estende pressoché interamente nel comune di Bucine, in provincia di Arezzo (approfondisci).
Al capoluogo comunale fanno da cornice una serie di incantevoli località, che custodiscono la cultura di uno dei territori più affascinanti della Toscana: una zona ricca di natura e di una storia che – come si vedrà – è stata contraddistinta da momenti gloriosi, ma anche tristi e, persino, da episodi e leggende “ai confini della realtà”.
La gita che si qui si va a descrivere è appunto… di un weekend. In realtà, la Valdambra trabocca di luoghi interessantissimi, per la visita completa dei quali non sarebbe sufficiente un mese. Ecco perché – lo metto subito in chiaro – il racconto che segue consta solo della mia esperienza personale e non pretende certo di essere una lista completa di tutte le locations della zona: molte di esse ho dovuto – ahimè – saltarle, ma nulla esclude che possa visitarle in un prossimo tour!
Alla scoperta del territorio valdambrino
Relativamente vicina al capoluogo provinciale (Arezzo dista circa venticinque minuti d’auto) e a due passi dai grandi centri valdarnesi di Montevarchi e di San Giovanni, Bucine (così come il suo territorio) è facilmente raggiungibile pressoché dal resto della penisola. Chi percorre l’Autostrada del Sole può servirsi del casello Valdarno, mentre chi giunge da Siena dovrà utilizzare il raccordo autostradale per Bettolle, uscendo in località Colonna del Grillo e quindi seguire la SP 540.
Probabilmente è quest’ultimo il percorso più suggestivo.
La strada costeggia il corso dell’Ambra, il quale nasce in provincia di Siena e, dopo un percorso di poco meno di 40 km, si getta nel più lungo fiume toscano: l’Arno.
Tutt’intorno, al visitatore si presenterà un territorio verdissimo: placidi colli ricoperti da una lussureggiante vegetazione fanno da cornice ad una lunga valle intensamente coltivata.
Chi intende immergersi più profondamente nel microcosmo valdambrino ha a disposizione dei sentieri da percorrere a piedi: consigliatissimi il “Sentiero dell’Ambra” (che dall’omonima località si snoda sino a Badia a Ruoti); e il “Sentiero dei Borghi”, più faticoso ma di enorme fascino, le cui tappe si intravedono dal fondovalle.
Osservando da qui le sommità dei colli, infatti, si stagliano inconfondibili su di esse le sagome di castelli e di piccoli borghi medievali.

In effetti, la presenza umana qui è molto antica, come confermato da manufatti preistorici e da insediamenti di epoca etrusca (Poggio Castiglione e Monte di Rota). E non potrebbe essere altrimenti: una valle tanto fertile è stata ambita per secoli dai potenti vicini.
Nel XIII secolo, la Valdambra fu oggetto della contesa tra le potenti famiglie casentinesi dei Guidi di Modigliana e degli Ubertini di Chitignano, rispettivamente al comando della zona orientale e di quella occidentale della Valle. A separare le rivali, l’Abbazia di Santa Maria d’Agnano, che aveva giurisdizione sulla parte centrale, oltre a qualche possesso di una terza famiglia, i Tarlati, signori di Arezzo. Proprio questi ultimi, nel XIV secolo, si impadronirono di Bucine, proiettandosi verso il dominio della Valdambra.
Solo che stavolta, tra i due originari litiganti, non fu il terzo a godere… L’instabilità politica, infatti, fece il gioco, di Firenze, la quale, nel corso del medesimo e nel successivo secolo, assoggettò al proprio dominio l’intera Valdambra. Da quel momento, la valle seguì le sorti della città gigliata e, in futuro, del Granducato di Toscana.
Lo splendido Ponte di Pogi
A una manciata di chilometri da Bucine, sorge una testimonianza della lunga storia della Valdambra. Tra gli edifici della frazione di Pogi, lungo l’Ambra, svetta un antichissimo capolavoro architettonico. Noto come “Ponte di Pogi”, la struttura presenta cinque arcate in pietra. Secondo i più, le sue origini risalirebbero all’età romana, allorché il ponte fu edificato per consentire alla via Cassia adrianea di superare il torrente.
Recentemente ristrutturato e riportato a nuovo splendore, il ponte è contornato da un delizioso paesaggio, tra sponde erbose e ricche di vegetazione, non di rado scelte da amanti del trekking, della pesca e della fotografia.

Bucine
Crocevia di una gita in Valdambra è il capoluogo del comune a cui la valle appartiene: Bucine (da pronunciarsi con l’accento sulla “u”!).
Delizioso e vivace borgo, presenta un aspetto alquanto moderno. Grazioso è il bianchissimo Palazzo comunale, che si erge su Piazza del Popolo. Al centro di quest’ultima, svetta la “Vittoria alata” dell’artista Pietro Guerri, dedicata ai caduti valdarnesi della prima guerra mondiale.

La vivacità di Bucine è confermata dal vicino Teatro comunale, realizzato nel primo Novecento e che annualmente ospita interessanti stagioni artistiche.
Assai interessante, nel capoluogo, è la cinquecentesca Chiesa dei Santi Giovanni Battista e Appollinare, artistico fulcro della locale fede cristiana.
Tra storia, religione e stregoneria: Galatrona
Se da Bucine ci si vuole immediatamente tuffare nella storia valdambrina, a una manciata di chilometri sorge Galatrona, splendida località immersa tra colli ora coltivati a vite e olivo ora lasciati ricoperti dai boschi.
Risalendo il declivio, s’incontra l’antichissima Pieve di Galatrona. Dedicata attualmente a San Giovanni Battista, era intitolata a San Lorenzo allorché, nel 774, fu per la prima volta menzionata in documenti storici. Intorno al XIII secolo fu, poi, consacrata a Santa Maria, prima di essere dedicata all’eponimo Santo attuale.
Sormontata da un campanile a vela, presenta sotto l’architrave della facciata lo stemma della potentissima famiglia senese dei Piccolomini (a cui appartennero, fra gli altri, i papi Pio II e Pio III), ivi apposto nel 1619.
L’interno è uno scrigno d’arte robbiana, contenendo tre splendide opere dall’invetriatura tipica di questa scuola scultorea: un ciborio, un fonte battesimale a base esagonale e una statua di San Giovanni Battista, tutte realizzate nella prima metà del Cinquecento da Giovanni della Robbia.

Uscendo dalla Pieve e volgendo lo sguardo alla sommità del monte su cui ci troviamo, risulterà la mole di un torrione medievale. Noto come Torre di Galatrona, costituisce quanto rimane di un grande castello eretto ancor prima del Mille (e un cui dipinto è custodito nella citata Pieve). Alto poco meno di trenta metri, l’edificio è raggiungibile attraverso un tortuoso quanto affascinante percorso attraverso i boschi.
Prima nota “paranormale”. Tra i personaggi più noti (e singolari) ivi vissuti vi fu Nepo da Galatrona, stregone e guaritore quattrocentesco. Inviso alla Chiesa (tanto da essere definito “malefico” dal vescovo aretino Filippo de’ Medici), fu invece stimato da Lorenzo il Magnifico, che si avvalse dei suoi servigi e lo protesse negli anni in cui il mago visse a Firenze.
Tornato a Galatrona, fu arrestato dall’Inquisizione, scampando tuttavia al rogo grazie ad un nuovo intervento mediceo.
Il borgo della “Donna gentile”: San Leolino
Da Galatrona è visibile un ridente centro turrito, poggiato su un verdeggiante colle: è San Leolino, nucleo abitato sorto laddove poggiava l’antichissimo castello dei Conti Guidi, riconoscibile dai muraglioni che ora fungono da pareti esterne delle abitazioni.
Internamente, risalta la splendida Pieve, dedicata al Santo che dà nome al paese, che in tali zone predicava il Vangelo, prima di essere martirizzato nel 303 d.C. durante la persecuzione di Diocleziano.
L’edificio di culto presenta, fra gli altri, tre splendidi altari, una serie di tele seicentesche, una Madonna con bambino terracotta policroma e un fonte battesimale sormontato da un pregevole tempietto in alabastro. E ciò è “solo” un assaggio, perché nei locali della canonica è allestito un interessante Museo d’arte sacra.

Tra gli edifici del borgo si distingue quella che fu la casa di Quirina Mocenni, nobildonna senese moglie del montevarchino Ferdinando Magiotti. Nel periodo in cui visse con il marito a Firenze, intrattenne una breve relazione con Ugo Foscolo, che le dedicò il celebre sonetto “Alla donna gentile”. Anche dopo il termine del soggiorno fiorentino del poeta, Quirina, che trascorse a San Leolino gran parte della propria vita, nutrì per lui un forte sentimento e tra i due proseguì per anni un lungo e rilevante carteggio.
In Valdambra, è diffusa la leggenda che Foscolo avrebbe fatto visita a Quirina proprio a San Leolino e che, addirittura, proprio qui sarebbe nato un figlio illegittimo dei due amanti, poi cresciuto segretamente in loco da altra famiglia. Non vi è, tuttavia, alcuna prova a sostegno di ciò.
È, invece, dimostrata la visita a Quirina di un altro grande letterato (e patriota) dell’epoca, suo grande amico: Silvio Pellico, che si recò a San Leolino nell’aprile 1846 insieme con la marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo, di cui era segretario.
Tra medioevo, fantasmi e incontri ravvicinati: Cennina
Lasciato San Leolino, è consigliabile spostarsi nella vicina Cennina, altro centro di grande interesse storico. Arroccato anch’esso su un colle, il borgo, composto da casette in pietra, si snoda attorno alle rovine di un castello.
Il maniero fu “ufficialmente” edificato a partire dal 1167 dal condottiero ghibellino Brandaglia Alberico d’Uguccione e nei secoli successivi fu teatro di frequenti e cruenti scontri, specie tra le vicine potenze di Siena e Firenze, che intendevano occuparlo o neutralizzarlo, data la sua importanza strategica.

Seconda nota “paranormale”. La memoria dei molti militi evidentemente caduti presso Cennina nei suddetti scontri, unitamente all’ipotesi che il castello sarebbe in realtà sorto attorno ad una preesistente struttura dei Templari, hanno creato la voce che le sue rovine ospitino fantasmi… Per tale motivo, non di rado Cennina è meta di “investigatori del paranormale”.
Nei pressi del castello sorge la graziosa locale chiesetta intitolata ai Santi Pietro e Biagio.
Terza nota “paranormale”. Proprio una fedele ivi diretta, il 1° novembre 1954, sarebbe stata protagonista di uno dei più famosi incontri ravvicinati del terzo tipo avvenuti in territorio italiano.
Si tratta della signora Rosa Lotti Dainelli, una contadina che risiedeva in una casa colonica nelle vicinanze e che quel giorno, festa di Ognissanti, di prima mattina si incamminò verso Cennina per assistere alla Messa.
Per evitare di sporcarle durante il viaggio, la donna teneva in mano le scarpe e le calze, unitamente ad un mazzo di garofani che intendeva offrire all’immagine della Madonna Pellegrina.
Attraversando un bosco nei dintorni del borgo, la signora scorse uno strano macchinario fusiforme: alto circa due metri e largo poco più della metà, era conficcato nel terreno in posizione verticale e presentava minuscoli oblò e un portello aperto, da cui erano visibili due piccoli sedili.
Incuriosita, la donna si avvicinò all’oggetto, quando all’improvviso sbucarono dalla boscaglia due omini. Alti circa un metro, indossavano divise grigie con mantellina e caschi in un materiale che ricordava il cuoio. La signora Rosa li ricordò come esseri dallo sguardo pieno d’intelligenza, con bellissimi occhi e bocche da cui erano sempre visibili i denti, come se ridessero.
I due omini, che parlavano un idioma incomprensibile (composto di suoni come “liu, lau, lai, loi”), le presero alcuni garofani e una calza e li riposero nell’oggetto fusiforme, da cui estrassero uno strano strumento cilindrico che le puntarono e che, secondo la donna, sembrava una sorta di macchina fotografica.
Spaventata, Rosa fuggì a Cennina, denunciando l’accaduto ai Carabinieri. I quali, poco dopo, si recarono sul posto e trovarono, in effetti, un buco nel terreno, come lasciato da un grosso oggetto appuntito.
Non solo. Nella zona furono raccolte oltre venti testimonianze di abitanti locali che avrebbero avvisato, quella stessa mattina, un oggetto luminoso atterrare o decollare proprio da Cennina.
Per di più, proprio l’autunno del 1954 si contraddistinse per una miriade di presunti avvistamenti di UFO, soprattutto tra Francia e Italia, inclusi alcuni oggetti volanti che il 27 ottobre furono visti da migliaia di persone sorvolare la vicina Firenze.
La signora Rosa fu ritenuta sana di mente e attendibile e la notizia finì su molti quotidiani dell’epoca. Addirittura, le fu dedicata una copertina de “La Domenica del Corriere”. Ancor oggi, l’incontro di Cennina è famosissimo presso gli ufologi e i sostenitori dell’esistenza di forme di vita nel resto dell’universo.
Passeggiata tra Duddova e Ambra
Lasciata Cennina, è consigliabile dirigersi verso Ambra, il principale centro del comune di Bucine dopo il capoluogo.
Scendendo il declivio, s’incontrerà dapprima il delizioso borgo di Duddova: pare che l’insolito nome (da pronunciare “Dùddova”) derivi da un lemma ostrogoto, a testimonianza della vetustà del centro.
Un tempo roccaforte degli Ubertini, nei secoli ha perduto le fortificazioni, ma ha mantenuto la sua fisionomia di paesello medievale, con case in pietra attorno alla chiesa, ivi dedicata a San Michele Arcangelo.
Eloquente la sua vocazione a centro oleario: non solo per la presenza di oliveti tutt’attorno a Duddova, ma anche perché tra i vicoli del borgo sono presenti macine in pietra risalenti al Seicento e appartenenti ai tre frantoi che un tempo ivi operavano.

A valle di Duddova sorge Ambra. Traversata dal torrente omonimo, appare come un centro assai dinamico, frutto dello sviluppo della lavorazione del tabacco, la principale coltura della piana circostante.
La parte centrale del borgo ha mantenuto l’aspetto storico e custodisce la splendida Chiesa di Santa Maria, risalente almeno al Trecento. All’interno dell’edificio religioso, una mirabile tela seicentesca del celebre Giovanni Mannozzi, meglio noto come “Giovanni da San Giovanni” (in quanto nato nella vicina San Giovanni Valdarno), raffigura la Natività di Maria.

Il centro storico di Ambra è particolarmente interessante, con stradine che s’intersecano tra gli antichi edifici.
Molto toccante un monumento raffigurante una donna che sorregge il proprio figlio morto. Opera dell’artista Firenze Poggi, è dedicato ai caduti di tutte le guerre e reca alla base un’eloquente scritta: “Contro ogni guerra l’ira delle madri”.
Tra il Chianti e i Colli d’Ambra: Pietraviva, Montebenichi e Rapale
Lasciando Ambra e dirigendoci ad ovest, verso il Chianti senese, si trovano altri borghi di notevole fascino.
Risalendo leggermente il declivio, lungo una strada che divide i boschi da una fascia di verdissimi pascoli, s’incontra lo splendido e placido centro di Pietraviva. Posto su una collina, l’abitato è un dedalo di vicoli e antichi rustici, che ne denotano l’origine medievale. Si ritiene, infatti, che il borgo sia stato fondato nel XIV secolo, a seguito dell’abbandono di un vicino castello dal curioso nome di Santa Lucia di Rabbia Canina (forse per la presenza di guaritori o di miracoli legati a questo morbo molto diffuso nell’Italia medievale).

Saliamo ulteriormente i colli, per giungere ad un altro incantevole borgo, addirittura di origine longobarda: Montebenichi.
Tra casette colme di fiori, si stagliano due splendidi edifici: il “Castelletto”, realizzato nel primo Novecento su preesistenti costruzioni medievali ed oggi trasformato in struttura ricettiva; e Palazzo Stendardi, edificio natale del celebre capitano di ventura Gregorio Stendardi, meglio noto come Goro da Montebenichi.

Montebenichi ospita, altresì, una delle più antiche pievi toscane: è la Pieve di Santa Maria Assunta in Altaserra. Documentata sin dall’VIII secolo come oggetto di ripetute contese tra le Diocesi di Arezzo e di Siena, deve la sua attuale struttura, in stile romanico, ad una profonda ristrutturazione operata nel XII secolo.
Spostandoci ulteriormente a sud-ovest, risaliamo i Colli d’Ambra: dopo una serie di curve apparirà il profilo dell’antica cittadina di Rapale. La sua distanza dai locali centri maggiori ne aumenta il fascino di borgo medievale. E, in effetti, le sue vetuste quanto graziose abitazioni si ergono attorno al castello, fra l’altro contenente un pregevole edificio di culto dedicato a San Miniato.

Colpisce la possanza delle mura, peraltro caratterizzate dalla presenza di una torre scamozzata (a sinistra, nella foto di copertina di questo articolo). E tali mura costituirono, secoli fa, un importante baluardo per gli abitanti del luogo contro gli orrori della guerra. Nel 1554, infatti, la Repubblica di Siena, alleatasi con il Regno di Francia, mosse guerra contro Firenze, che aveva già fatto propria la Valdambra. Nel tardo inverno, i franco-senesi irruppero in Valdambra e, vicino a Rapale, compirono una strage, distruggendo la Torre della Selva e trucidando molti dei civili (inclusi donne e bambini) che vi si erano asserragliati in cerca di salvezza. Gli abitanti di Rapale, che assistettero in lontananza impotenti alla strage, si chiusero nel proprio borgo, scrivendo d’urgenza al podestà di Bucine, che a propria volta allertò il Duca di Firenze Cosimo I de’ Medici. Di lì a poco, i fiorentini, a fianco dei propri alleati spagnoli, calarono a sud per poi sbaragliare, il successivo 2 agosto, i franco-senesi nella vicina Val di Chiana, in occasione della celebre battaglia di Scannagallo.
Percorso tra i luoghi della fede: Badia Agnano, Capannole e Badia a Ruoti
Oltre che di castelli, la Valdambra pullula di antichi edifici di culto.
Alcuni sono stati già descritti nell’articolo.
Ma ve ne sono molti altri parimenti imperdibili. Torniamo, allora, in direzione di Arezzo e spostiamoci nel borgo di Badia Agnano. Altro antico centro assai delizioso, tra un piccolo dedalo di caratteristici vicoli medievali ospita la splendida chiesa eponima.
Già si è parlato, nelle premesse storiche dell’articolo, della rilevanza che la Badia di Santa Maria ad Agnano aveva in epoca medievale, durante la quale costituì un importante feudo ecclesiastico.
Nata come abbazia benedettina già prima del Mille, fece in seguito parte della Congregazione camaldolese. Fu poi retta, temporaneamente, da abati commendatari, l’ultimo dei quali fu nientemeno che il futuro cardinale Carlo Borromeo.
Oggi è dedicata ai Santi Tiburzio e Susanna e presenta una struttura con una sola navata, culminante con un crocifisso ligneo ed una splendida vetrata.
A fianco dell’abbazia sorge la Chiesa della Compagnia della Visitazione, pregevole edificio barocco, il cui nome richiama la principale opera ivi custodita: la “Visitazione” di Bernardino Santini.
A pochi chilometri da Badia Agnano sorge il piccolo centro di Capannole.
Qui si staglia, visibile lungo la strada che collega Bucine con Ambra, uno splendido edificio di culto in stile neogotico, senza dubbio tra i più belli dell’intera vallata: la Pieve di San Quirico. Dall’esistenza documentata sin dall’XI secolo, presenta un interno finemente affrescato. Meraviglioso il presbiterio, che raffigura gli evangelisti Marco, Matteo, Luca e Giovanni su una volta stellata.
Proseguiamo, quindi, verso il borgo di Badia a Ruoti. La struttura medievale, con mura ora costituenti pareti esterne delle abitazioni, culmina con la pregevole e antichissima (XI secolo) Badia di San Pietro. All’interno, a fianco di frammenti di affreschi cinquecenteschi, risalta la mirabile Incoronazione della Vergine, opera del 1472 di Neri di Bicci.
Un viaggio nella memoria: San Pancrazio
Forse rammenterete il mio articolo su Civitella in Val di Chiana: uno splendido borgo, tuttavia con un terribile trascorso, l’eccidio nazista del 29 giugno 1944. Nel medesimo articolo, ho menzionato che, oltre al borgo civitellino e alle sue prospicienti frazioni, uno dei luoghi della strage si trovava anche nel comune di Bucine.
È la località di San Pancrazio, dislocata su un crinale dei Colli d’Ambra a monte di Badia Agnano e Capannole, raggiungibile seguendo una suggestiva strada di curve che s’inerpicano tra boschi sconfinati. In linea d’aria non è assai distante da Civitella, motivo per il quale la famigerata Divisione corazzata Hermann Göring decise di attuare anche qui, in quel luttuoso 29 giugno 1944, il suo piano di sangue.
Nella piazza intitolata ai martiri dell’eccidio, si trovano il Sacrario e il Museo della memoria.
Nel primo campeggiano una serie di fotografie del borgo prima e dopo la tragedia, unitamente ad un memoriale indicante i nomi delle vittime.
Attiguo, il Museo della Memoria, inaugurato nel 2007, contiene le toccanti testimonianze dei superstiti. Ve n’è una, in particolare, che ha colpito chi scrive. Contiene le parole della signora Adriana Cardinali, che all’alba di quel terribile giorno, ancora bambina, svegliata dal rumore dei camion tedeschi, si avvicinò alla finestra della propria camera da letto, udendo quanto segue:
«A un certo punto uno disse:
“Allora, siamo intesi – così eh, in italiano puro – Avanti, coraggio e senza pietà!”»
Una delle molteplici prove – se mai ce ne fosse ulteriore bisogno – del cinico, crudele e fratricida contributo reso alle stragi naziste da parte di molti italiani aderenti alla Repubblica di Salò.

Anche San Pancrazio, come Civitella, perse il proprio parroco quel giorno: si tratta di don Giuseppe Torelli, che cercò invano di salvare i propri parrocchiani, ma finì per condividerne la fine.
Altra vittima “illustre” della strage di San Pancrazio fu la staffetta partigiana Modesta Rossi, tra le più coraggiose donne ad aver legato il proprio nome alla Resistenza italiana. Di fronte al rifiuto di rivelare ove si nascondessero i ribelli (fra i quali vi era anche il marito), fu condotta dai nazifascisti nel vicino centro di Solaia e qui trucidata con il proprio stesso bambino in braccio.
Don Torelli fu fregiato nel 1977 della medaglia d’oro al valor civile, mentre Modesta Rossi già negli anni ’40 era stata decorata con la medaglia d’oro al valor militare. La stessa città di Bucine fu insignita della medaglia d’oro al valor civile nel 1975.
Il 29 giugno 1944 furono in totale 73 le persone assassinate a San Pancrazio. A loro ricordo, oltre al Sacrario e al Museo menzionati, la comunità locale ha realizzato un’opera dal fortissimo impatto emotivo: si tratta di un roseto collocato nel retro dell’edificio che ospita il sacrario e che, appunto, consta di settantatré piante di rosa, a fianco di ciascuna delle quali è collocata una targa recante nome e cognome, nonché date di nascita e di morte delle vittime dell’eccidio (oltre ad ulteriori piante di rosa dedicate a vittime di altri eccidi consumatisi nella zona).

Da un paio d’anni, ivi si tiene il festival internazionale “Il roseto della musica”, giustappunto intitolato alle vittime della strage. Del resto, proprio uno dei principali gruppi musicali aretini di fama, la “Casa del vento”, dedicò loro, nell’album “Sessant’anni di Resistenza” (2004), la splendida canzone “Settanta rose”.
A fianco del roseto, si erge un piccolo parco: su uno splendido prato, svetta una bianchissima statua, “Il faro”, anch’esso di Firenze Poggi, dedicata ai martiri del 29 giugno. A fianco, su una legenda illustrativa, colpisce una citazione di Bertold Brecht:
“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.
Di fronte, uno splendido panorama sulla Valdambra. La quale, nonostante i morti e le distruzioni frutto della follia della guerra, i suoi fieri e ospitali abitanti hanno saputo riscattare e far tornare più bella che mai. Provando, ancora una volta, che, quantunque il male possa colpire, alla fine “l’amore vince su tutto”.
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Questo articolo conferma la garndezza e bellezza delel piccole realtà del nostro territorio, offrendo spunti per il turismo consapevole ed alternativo al classico tour.
Ti ringrazio, ed è in effetti la Valdambra è veramente interessante, sotto molteplici aspetti.