
L’arancina è fimmina: dieci piatti dello street food a Palermo
Palermo e il cibo: un binomio indivisibile. Una fra le città che trova la sua identità non solo negli stili architettonici arabi e normanni, che si fondono tra loro con grande meraviglia dei visitatori, ma anche e soprattutto nella sua commistione culinaria. U manciari di strada, che i modaioli chiamano Street food, a Palermo, è un’attività imprescindibile: non si conosce davvero la città se non ci si lascia andare agli odori, ai contrasti forti e ai sorrisi e soprattutto ai sapori dei venditori ambulanti.
Il cibo fatto in strada è un patrimonio unico per Palermo: non solo per gli italiani, ma anche per turisti e buongustai stranieri. Un tempo considerato “cibo povero”, e avversato da regole comunali a volte troppo soffocanti, lo street food palermitano ha già conquistato il mondo: è del 2013, infatti, la classifica di Virtual Tourist e Forbes, che incorona questa meravigliosa città come quinta al mondo per il suo cibo di strada, dopo Bangkok, Singapore, Menang e Marrakesh.
La balena di Gente in Viaggio, informatissima sulla cultura gastronomica di strada, vi propone dieci piatti della tradizione di strada palermitana: pietanze da mangiare rigorosamente per le vie del Capoluogo siciliano, in piedi, ungendosi senza alcuna remora. Alcuni sono particolarmente noti, come le classiche arancine o il panino con panelle e crocchè: altri, invece, vi sorprenderanno per la commistione di sapori e la semplicità con cui i venditori ambulanti li accostano, offrendovi sempre una porzione più grande di quella commissionata.
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Arancine
Impossibile non partire dalle arancine che, a Palermo, a differenza del resto della Sicilia, sono di sesso femminile: mai dire arancino a un ambulante, ma arancina. Secondo la storia più diffusa, sembra che le arancine siano state importate dagli arabi, che usavano mangiare riso e zafferano condito con carne, erbe e spezie. Frittura e impanatura, invece, nascono durante il regno di Federico II, come metodo per conservare meglio il cibo: il metodo di cottura, infatti, rende le arancine ideali per le prolungate battute di caccia. Il nome deriva da “melarancia”, che si fa risalire fino al 1700: all’epoca, infatti, le arancine erano presumibilmente dei dolci. A Palermo, e in gran parte della Sicilia, si accostano alla festa di Santa Lucia: ancora oggi il 13 dicembre le arancine vengano consumate come pasto principale. La ricetta tradizionale vuole la divisione fra arancina “accarne”, cioè con ragù (o sugo di carne) piselli e formaggio, o “abburro”, con prosciutto e besciamella, rigorosamente bianche. Sulle strade troverete queste due versioni classiche, anche se oggi le arancine sono fatte in tantissimi modi diversi: con le melanzane fritte e la ricotta, con i funghi, con gli spinaci, con il pesce spada o le seppie.
Panelle & crocchè (cazzilli)
Anche questo è un classico del cibo di strada: il panino panelle e crocchè, meglio conosciuti dai palermitani doc come cazzilli. Il panino solitamente è una mafalda, cioè un panino morbido, quasi dolce, ricoperto di sesamo: dentro, oltre alle panelle e crocchè fritte, l’immancabile succo di limone, che gli ambulanti mettono a disposizione in pezzi per gli avventori. La panella è una frittatina di ceci, preparata con farina di ceci, abbondante prezzemolo e acqua, introdotta dagli arabi a cavallo tra il IX e l’XI secolo. Le crocché, sono le tipiche croquettes francesi in versione sicula: fatte con uova e patate ridotte a purea, a volte preparate anche con la variante del latte al posto delle uova, e abbondante menta.
Sfincione
Lo sfincione è il terzo spuntino di strada più amato: adatto non solo agli stomaci forti, come invece saranno le pietanze che seguono. E’ un pane pizza molto lievitato su cui viene messa salsa di pomodoro, ricotta salata, cipolla, acciughe e, a volte, caciocavallo ragusano. Prende probabilmente il suo nome dal latino di spugna, spongia, oppure dall’arabo isfanǧ, una frittella dolce condita con il miele. Prodotto nelle rosticcerie, viene più spesso venduto per strada, dagli ambulanti su veicoli a tre ruote, i lapini. Uno sfincione fatto a regola d’arte vuole che la pasta non sia assolutamente pregna di olio: variante di Bagheria è lo sfincione bianco, cioè senza di pomodoro.
Pani ca meusa
Qui ci si addentra in un mondo più “hard”, quantomeno per coloro che non hanno mai frequentato le strade di Palermo. U pani c’a miévusa, come pronunciano i palermitani è, allo stesso tempo, molto famoso nel mondo: è fatto con la vastedda, un panino rotondo ricoperto di sesamo. Dentro ci va un ripieno di milza di vitello che viene prima bollita e poi ripassata in padella nello strutto: in alcune ricette sono compresi anche i polmoni. Il meusaro preparerà il panino davanti a voi, perché deve essere consumato sul momento: la sua origine pare risalire al Medioevo, quando gli ebrei palermitani non potevano ancora accettare denaro come compenso per la macellazione della carne. Al posto dei soldi, prendevano quindi le interiora,che poi bollivano e rivendevano ai cristiani come spuntino. Dopo la cacciata degli ebrei da parte di Ferdinando II d’Aragona, l’usanza di mangiare pane e interiora passò agli strati cristiani più poveri, che approfittavano degli scarti alimentari delle famiglie nobiliari.
La preparazione del pane ca meusa è molto complessa: dopo aver bollito milza e polmoni si appendono in alto, perché la frittura finale nello strutto dev’essere fatta all’ultimo minuto, proprio prima di consegnare il panino. Varianti: il panino classico viene detto “schettu”, ovvero celibe: se invece viene aggiunto caciocavallo grattuggiato o ricotta viene detto “maritatu”, cioè sposato.
Alla scoperta della tradizione culinaria Siciliana
Pollanca
La pollanca è la classica pannocchia bollita: non si consuma solo a Palermo, ma il metodo di preparazione e di vendita in uso in città è certamente particolare. L’ambulante, infatti, la “pesca” da un pentolone, in cui sono immerse in acqua calda, dopo essere state bollite: con un lungo forcone le porge all’avventore.
Purpiceddu
Come spesso succede a Palermo, il nome del piatto designa il lavoratore, che diventa uno specialista di quella pietanza. Così come c’è il meusaro, il purparo vi servirà un’abbondante porzione di polipo bollito, con abbondante prezzemolo e limone. La prossimità con il mare, infatti, fa si che fra la pesca del polipo e la sua cottura passi pochissimo tempo: una variante casalinga del purpiceddu, è il purpiceddu maritato, cioè prima bollito e poi cotto in umido.
Cicireddu
Il capitolo dal mare alla strada continua un piccolo pesce dal corpo lungo e sottile, che viene pescato solo in alcune regioni come Calabria, Sicilia e Liguria. E’ esemplificativo di una serie di pesci che vengono venduti come spuntino per strada: così si fa con le sarde o i sauri. Solitamente vengono bolliti e serviti con abbondante olio e limone, ma si trovano anche fritti.
Rascaturedda
Con questa pietanza facciamo sul serio: inizia il capitolo degli stomaci forti. La rascatura, o raschiatura, è stata creata dai palermitani per evitare lo spreco di cibo. A fine serata, nelle friggitorie, rimangono impasti di vario tipo: anziché buttarli gli attenti palermitani creano una sorta di polpette miste, dal sapore sempre diverso. Dentro ci può essere di tutto: dall’impasto per le panelle a quello delle crocchè, dai resti di condimenti per lo sfincione a panature di altre pietanze. La diversa consistenza degli elementi mette in luce la bravura del cuoco: la classica rascatura ha una forma piatta, triangolare, ma non è strano trovarne di diverso tipo. Il prezzo è ovviamente competitivo, dal momento che è una pietanza creata con gli scarti della cucina.
Quarume, stigghiola e frittula
Questo paragrafo racchiude tre ricette molto famose fra i palermitani doc, che confermano la loro esagerata passione per le interiora. Il quarumi, che in italiano si traduce con “caldume”, cioè pietanza calda, è uno dei piatti più poveri della tradizione di strada, una presenza tipica agli angoli delle strade. Il piatto è fatto dalle viscere del vitello bollite con cipolle, prezzemolo, sedano e carote in una grande pentola detta quarara: si consuma caldo e tendenzialmente in piedi.
Le stigghiola, sono invece budella di agnello o vitello, preparate anche qui da uno specialista del mestiere: lo stigghiularu, un uomo di fiducia del consumatore palermitano. Dopo essere state lavate e condite con prezzemolo e volte con la cipolla, le interiora vengono cotte sulla brace. Si consumano accompagnate da limone e condite con il sale, sempre a disposizione dei clienti.
Anche la frittola è particolarmente povera: ricavata dalla lavorazione delle ossa e degli scarti delle macellerie e messa a cuocere per lungo tempo, in modo da far staccare i residui di carne dalle ossa e dalle cartilagini e far ammorbidire il tutto. I pezzetti di carne, cartilagini e calli vengono fritte nello strutto e insaporiti con alloro, zafferano e altre spezie. Le frittole si conservano in un cesto e si possono mangiare sole o in un panino, rigorosamente coperte da succo di limone. Insieme alla meusa, la frittola è la colazione del palermitano dallo stomaco forte.
Mussu e carcagnolu
Infine, altri due piatti di strada per i veri amatori dei piatti tipici, creati degli scarti delle famiglie nobiliari palermitani: in quinto quarto dell’animale, piedi, testa e muso del maiale. Una volta puliti e lessati, vengono fatti raffreddare e tagliati a pezzettini che l’avventore può mangiare con le mani, intingendoli nel sale, col metodo conosciuto come a stricasali. Nella versione moderna dei ristoranti cittadini vengono spesso serviti conditi con olio e accompagnati da insalata fresca.
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