
Un itinerario in bianco e nero nell’Etiopia del Nord
L’Etiopia del Nord è come un gigantesco museo a cielo aperto. Oltre agli arditi paesaggi montuosi, alle chiese affrescate a colori vivaci, alle gigantesche euforbie e alle variegate testimonianze storiche, sono soprattutto gli usi e i costumi del popolo che affascinano il viaggiatore curioso. Cerimonie senza tempo, abiti presi direttamente dalla Bibbia, una religiosità ingenua e piena di leggende, i lavori nei campi rimasti uguali a mille anni fa… Insomma, un viaggio in bianco e nero.
Sul Lago Tana, il più vasto dell’Etiopia, il trasporto del legname è affidato a queste canoe di papiro che scivolano in fila; ai remi uomini con uno straccio in testa sollevano gocce che scintillano. Sul lago si affaccia la Penisola di Zege, dove tra limoni, banani e piante di caffè spuntano i tipici monasteri a pianta circolare con il tetto di paglia: qui si può conoscere il fantastico mondo della chiesa ortodossa etiope (da non confondersi con quella copta egiziana − nonostante siano in qualche modo imparentate).
Dal Lago Tana nasce il Nilo Azzurro, che poi nei pressi di Khartoum si unirà a quello Bianco. Qualche chilometro più avanti esso si getta da una parete dando vita alla fumante cascata di Tis Isat, circondata da un parco meraviglioso baciato dal sole che tramonta.
Alla scoperta dell’Africa
Gondar, la vecchia capitale imperiale, è una tappa obbligatoria del circuito storico perché ospita la fortezza di Fasil Ghebbi, fondata da re Fasiladas nel 1600. Nelle vicinanze della città si trovano i Bagni di Fasiladas, che ogni anno vengono aperti ai fedeli in occasione della più importante festa religiosa etiope, il Timkat, che commemora il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano.
Presso la chiesa di Debre Berhan Selassie, sul soffitto della quale sono allineati un centinaio di angeli naif dalla faccia tonda e piatta, è facile apprendere alcuni rudimenti della ritualità etiopica, come l’uso del grosso tamburo e del bastone; quest’ultimo ha molteplici usi, ad esempio serve da pratica stampella durante le messe, o ci si appoggiano le braccia quando è portato sulle spalle.
La cerimonia del caffè presenta una coreografia molto fotogenica: fili d’erba fresca sul pavimento, un tavolino basso pieno di tazzine di ceramica senza manico, un contenitore artigianale per l’incenso che brucia, dei granelli di caffè messi in padella a tostare; una esotica signorina che pesta a dovere il caffè e prepara il bricco fino all’ebollizione. Per tradizione, sono tre le tazzine di caffè offerte all’ospite, che poi dovrebbe ricambiare in pari numero.
Per la visita al parco dei Monti Simien (nei pressi di Debark) è d’obbligo essere accompagnati da scout in tenuta mimetica armati di kalashnikov e da una guida. La strada si inerpica in un trionfo campestre da macchiaioli. Il paesaggio, ornato da erica, timo selvatico e cespugli di rosa abyssinica, e affollato da centinaia di babbuini gelada, è grandioso. Grossi avvoltoi svolazzano tra le montagne.
Il piatto base della cucina etiope è l’injera. Si tratta di una specie di piadina morbida, verdastra e di consistenza spugnosa, preparata con la farina di tef, il cereale più piccolo del mondo (infatti il suo nome vuole dire “facile da perdere”). Questo cereale è molto resistente alla siccità, privo di glutine e dona all’injera il suo inconfondibile gusto acidulo.
In un paese povero di tutto come l’Etiopia l’injera è un’idea geniale: sostituisce infatti il piatto, le posate e volendo si può usare come strofinaccio o tovagliolo (o addirittura come scialle). Solitamente infatti il companatico (pezzetti di carne al sugo o pappette di legumi, non di rado piccantissimi) viene versato sopra a questo disco verdastro e viene poi mangiato con pezzi della stessa usati come presine.
In un paese povero di tutto come l’Etiopia l’injera è un’idea geniale: sostituisce infatti il piatto, le posate e volendo si può usare come strofinaccio o tovagliolo (o addirittura come scialle). Solitamente infatti il companatico (pezzetti di carne al sugo o pappette di legumi, non di rado piccantissimi) viene versato sopra a questo disco verdastro e viene poi mangiato con pezzi della stessa usati come presine.
Axum fu la capitale di un vasto e potente impero che nacque già prima di Cristo e durò probabilmente un millennio, ma è conosciuta in Italia soprattutto per la stele che Mussolini fece portare a Roma nel 1937 e che è rimasta davanti al palazzo della F.A.O. fino al 2005. Oggi − dopo averne rincollato i pezzi − essa è stata rimessa in piedi e campeggia insieme alle sue compagne nel parco delle stele. Ognuna di esse (tranne quella che è caduta circa 1600 anni fa e giace in pezzi esattamente nello stesso posto) dovrebbe indicare che sottoterra ci sono delle tombe. In realtà, i soldi scarseggiano, le scelte vengono demandate all’Unesco e le visite dei ladri sono state frequenti, pertanto la percentuale di scavi effettuata è ridottissima e il sito archeologico è quasi totalmente virtuale.
Il monastero di Debre Damo è costruito sopra ad una amba (una montagna dalla cima piatta) ed è riservato ai soli maschi; e quando parlo di maschi, mi riferisco anche agli animali − non sia mai che i monaci che ci vivono possano cadere in tentazione. Per salire bisogna imbracarsi con una pelle di capra legata a una corda robusta, issata da un monaco addetto all’accoglienza: questo è l’unico modo per scalare la parete. Se qualcuno si chiede come fece il fondatore del monastero − un predicatore del V secolo − a salirci per la prima volta, c’è una risposta come al solito logica e credibile: fu aiutato da un serpente mandato da Dio in persona. Per fortuna anche senza scalare le donne possono godere la magnificenza della vallata: le montagne piatte sullo sfondo, le grandiose euforbie disseminate qua e là, tutto dorato dalla luce pomeridiana.
Lalibela, la Gerusalemme d’Etiopia, è il centro religioso più importante del Paese. Fu per la sua posizione lontana da tutto, e dunque più facilmente difendibile dalle incursioni arabe, che l’imperatore Lalibela, nel 13° secolo, scelse come nuova sede imperiale il villaggio di Roha (come si chiamava prima).
Il pezzo forte di Lalibela è la chiesa di San Giorgio, letteralmente scavata nella roccia. Si tratta di una voragine nel terreno al centro della quale emerge una chiesa con la pianta a forma di croce; il resto del buco è solitamente riempito da centinaia e centinaia di pellegrini.
Durante la visita alle chiese rupestri di Lalibela bisogna fare i conti con una incredibile folla di fedeli, accorsi da ogni dove e accampati in ogni angolo del villaggio. Il visitatore, mentre percorre il dedalo di gallerie, passaggi e cunicoli che collegano tra loro gli edifici, è circondato da persone che pregano, leggono, battono le mani, dipanano matasse, ridono; mentre attraversa le trincee per andare da una chiesa all’altra, sente canti sommessi echeggiare tra la folla e ogni tanto gli acutissimi urli di esultanza lanciati dalle donne. I pellegrini sono vestiti esattamente come nella Bibbia: tuniche, turbanti e bastoni di legno, tamburi, sistri e scacciamosche di crine di cavallo, ombrelli di velluto gialli rossi verdi blu e libri delle preghiere vecchi mille anni.
Ero davvero curiosa di conoscere questo popolo così fiero che − praticamente − non si è mai fatto sottomettere da nessun Paese europeo. Ma le mille contraddizioni del viaggio nel sud del mondo vengono tutte fuori: i bambini etiopi recitano la loro parte con maestria, i turisti si sentono in colpa per essere nati dove sono nati, i preti contano per ore i luridi birr che gli vengono dati per visitare la loro chiesa. E alla fine non ti restano che fotografie.