
Il cuore ebraico di Roma: una giornata nell’antico Ghetto
Nel cuore di Roma, precisamente nel pittoresco rione Sant’Angelo, in prossimità del punto in cui il Tevere s’incunea formando l’Isola Tiberina, da quasi sei secoli pulsa uno dei cuori dell’ebraismo nella penisola italiana.
A lungo costretti a vivervi compressi come mosche, in virtù di esecrabili provvedimenti che quasi anticiparono di mezzo millennio la follia della Shoà, gli ebrei romani vi resistettero imperterriti, uniti nella più genuina fratellanza e in quell’indomita consapevolezza della propria identità. Le quali hanno permesso loro di resistere attraverso secoli di discriminazioni, di calunnie e di emarginazione.
Un tempo tra i quartieri più difficili della capitale per le dure condizioni di vita imposte ai suoi abitanti, oggi l’antico Ghetto di Roma è uno dei gioielli della Città Eterna, tra antiche vestigia, eleganti palazzi, suggestivi vicoli, ristoranti kosher, lo splendido Tempio Maggiore e l’affascinante quanto struggente Museo Ebraico.
Cum nimis absurdum
Esseri umani strappati dai luoghi ove erano sempre vissuti. Costretti a sopravvivere ammassati come insetti in uno spazio angusto e ristretto, da cui poter uscire solo in determinati orari. Espropriati dei frutti del proprio lavoro ed inibiti dallo svolgere un gran numero di professioni. Forzati a indossare segni che li distinguessero dalle altre persone. Umiliati e sprezzati da quelle stesse pubbliche autorità che avrebbero dovuto tutelarli come tutti gli altri cittadini. Solo perché “colpevoli” di essere ebrei.
Se proviamo a pensare ad un’epoca storica in cui una simile vergogna ebbe luogo, la mente torna inevitabilmente ai crimini del nazifascismo, magari nella fase preparatoria della “Soluzione finale”.
Ma, quando la tenebra hitleriana imperversò sull’Europa, il popolo ebraico aveva già sperimentato una simile condizione.
Molti secoli addietro, allorché il Vecchio Mondo conosceva la sua progressiva cristianizzazione, fu gettata sugli Ebrei, già dispersi nella Diaspora, la pesante calunnia di “deicidi”, in quanto presunti responsabili della crocifissione di Gesù Cristo.
In realtà – come più volte nella storia si sarebbe ripetuto – chi governava necessitava di un gruppo di “diversi” su cui scaricare le conseguenze della propria ristrettezza culturale e della propria inettitudine politica.
Così fecero anche gli Stati europei. Così fece, a Roma e non solo, persino la Chiesa, la quale, anziché ispirarsi a quei principi d’amore e fratellanza che ne avevano forgiato gli albori, contribuì non poco alle discriminazioni che per secoli dovettero patire gli ebrei. Colpendo, nel caso di quelli romani, la più antica comunità giudaica del mondo occidentale, presente nell’Urbe da prima della nascita di Cristo.

Era il 1555. Lo Stato Pontificio era impegnato nella Controriforma ed aveva già scatenato gli artigli dell’Inquisizione in tutto il mondo governato da sovrani cattolici. Quell’anno vide la luce la prima delle famigerate “bolle infami”, come furono definite dallo storico Attilio Milano, nato e cresciuto proprio nel Ghetto di Roma. Emessa da papa Paolo IV, che vi recepì i principi del duecentesco Concilio lateranense IV (e per gran parte già applicati nello Stato Pontificio e negli altri Paesi cattolici), è passata alla storia con il suo incipit: “Cum nimis absurdum” (Poiché è oltremodo assurdo).
Più precisamente, così veniva giustificata la misura:
“Poiché è oltremodo assurdo e disdicevole che gli ebrei, che solo la propria colpa sottomise alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di esser protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo ai cristiani, mostrare tale ingratitudine verso di questi, da rendere loro offesa in cambio della misericordia ricevuta, e da pretendere di dominarli invece di servirli come debbano…”
Quali conseguenze meritavano, secondo l’allora Pontefice, gli ebrei per tale “ingratitudine”? In buona parte, sono già state menzionate all’inizio di questo paragrafo. Tra esse, appunto, l’obbligo di vivere, separati dai cristiani, in un “serraglio” (meglio noto, poi, con il termine di “ghetto”, dal nome del quartiere di Venezia ove gli ebrei locali furono segregati), cioè un luogo con limitati punti d’ingresso, chiusi per gran parte della giornata.
A Roma, il serraglio fu individuato nel rione Sant’Angelo, ove ormai da tempo dimorava buona parte della locale popolazione giudaica.
Agli ebrei romani fu imposto di indossare, quale distintivo, un copricapo (un cappello gli uomini e un fazzoletto le donne) di colore glauco, cioè azzurro verdognolo.
Essi, inoltre, non potevano possedere immobili. In pratica, gli ebrei furono costretti a vivere in dimore non proprie, di cui neanche potevano provvedere alla manutenzione. Lo stato degli edifici del quartiere precipitò nella fatiscenza, alimentata anche dalle piene del Tevere, che, prima della costruzione degli odierni muraglioni, immancabilmente lo inondavano.
E fu solo l’inizio. Nel 1569 vide la luce la seconda delle “bolle infami”, la “Hebraeorum gens”. Con essa papa Pio V (tra l’altro, successore di Paolo IV alla guida dell’Inquisizione romana), sulla base di una serie di calunnie addossate agli ebrei (furti, raggiri, malefici, nefandezze) e per il fatto che “il suddetto popolo (…) non è di nessuna utilità al nostro Stato”, li espulse dai territori pontifici, ad eccezione di quanti risiedessero nei ghetti di Roma e di Ancona.
Gli ebrei che, decorsi tre mesi dall’entrata in vigore della bolla, fossero stati trovati nei territori papali, sarebbero divenuti in perpetuo schiavi della Chiesa. Motivo per cui, molti degli ebrei residenti in borghi non lontani da Roma si rifugiarono nel relativo serraglio, che finì con l’aumentare ulteriormente la popolazione, quasi a straripare.

L’estensione del ghetto ebraico era, all’epoca, assai minore di quella attuale, tanto che nel 1586 papa Sisto V ne dispose un (modesto) ampliamento con la bolla Christiana Pietas. Con quest’ultima, peraltro, furono revocate una serie di restrizioni che convinsero alcune migliaia di ebrei a far ritorno nello Stato pontificio. Una misura adottata, più che per “pietà cristiana”, probabilmente per ovviare alle devastanti conseguenze che l’espulsione degli ebrei aveva provocato sull’economia dello Stato pontificio.
Ma fu solo una parentesi. Nel 1593, papa Clemente VIII emanò la terza delle bolle infami: la “Caeca et obdurata” (cieca e sorda, in riferimento alla presunta “perfidia degli Ebrei”). Qui le responsabilità dell’impoverimento dello Stato pontificio venivano attribuite direttamente agli ebrei, che dunque furono di nuovo espulsi (tranne che dalle città di Roma, Ancona e Avignone).
Malgrado le durissime condizioni di vita all’interno del ghetto, malgrado il degradante trattamento ricevuto dalle pubbliche autorità, la comunità ebraica romana resistette per secoli.
Anche di fronte alla diffidenza e ai pregiudizi all’epoca diffusi nel resto della popolazione. I “giudìi”, com’erano chiamati gli ebrei nell’Urbe, finirono persino per diventare oggetto di una delle più infamanti tradizioni dello storico carnevale romano: una corsa loro riservata (a fianco di altre disputate da appartenenti ad ulteriori categorie sprezzate quali storpi, nani e deformi), alla quale, dopo essere stati prelevati coattivamente nel Ghetto, venivano costretti a partecipare nudi, mentre ai lati del percorso l’irridente popolino lanciava loro pesanti insulti, nonché fango, pietre e altri oggetti d’ogni tipo.
Una simile vergogna fu soppressa solo nel 1667, ma gli ebrei poterono esimervisi solo a patto di accollarsi gran parte delle spese per realizzare il carnevale. Spese a fronte delle quali non ricevevano ringraziamenti, bensì umiliazioni. Si pensi che, nel primo giorno della manifestazione, il Rabbino Capo doveva recarsi in Campidoglio e qui chinarsi con la testa sino a terra davanti al Senatore: questi gli rifilava un calcio nel didietro, congedandolo con la frase “Andate, per quest’anno vi soffriamo!”.
Solo nel 1798, con l’occupazione napoleonica dei territori pontifici, la relativa popolazione giudaica conobbe la prima emancipazione e anche ad essa furono estesi tutti i diritti previsti per gli altri abitanti.
Nel 1814, la restaurazione del potere temporale dei papi riportò gli ebrei romani alle condizioni di sempre. Un piccolo spiraglio si aprì nel 1848, quando papa Pio IX ordinò l’abbattimento del muro di recinzione del Ghetto.
Ma la vera svolta accadde solo con la presa di Roma da parte delle truppe italiane. Fu proprio un giovane ufficiale ebreo, il trentunenne capitano Giacomo Segre, che all’alba del 20 settembre 1870 ordinò di sparare i primi dei colpi che aprirono la breccia di Porta Pia.
Roma fu annessa al Regno d’Italia e gli ebrei ricevettero la piena cittadinanza.
A partire dal 1888, l’angusto e insalubre antico Ghetto fu in gran parte ricostruito. Molti ebrei, nonostante non fossero più obbligati, scelsero di rimanere a vivere in detto quartiere. Che nel 1904 si dotò del suo fiore all’occhiello: la splendida sinagoga, nota come Tempio Maggiore.
Eppure – come vedremo nel prosieguo dell’articolo – per la comunità ebraica romana i giorni tristi non sarebbero cessati…
In giro per il Ghetto
Molto suggestivo è l’arrivo nel quartiere ebraico dal popolare rione romano di Trastevere. In tal caso, è consigliabile passare da Ponte Cestio, attraversare l’Isola Tiberina e quindi giungere in Lungotevere de’ Cenci utilizzando il pittoresco Ponte Fabricio. Da qui, tra le fronde dei platani, svetta inconfondibile la cupola del Tempio Maggiore.
Superato il Lungotevere, possiamo entrare nell’ex Ghetto tramite via del Portico d’Ottavia oppure, dopo aver costeggiato la sinagoga, attraverso via del Tempio.
La splendido Tempio Maggiore ci accompagna all’arrivo nel quartiere, che si contraddistingue per la presenza di eleganti ed alti palazzi, frutto degli aggiustamenti apportati ai locali edifici a partire – come detto – dalla fine degli anni Ottanta del XIX secolo.

L’affascinante via del Tempio offre una suggestiva immersione nell’anima giudaica della Capitale. È qui presente, infatti, una scuola primaria ebraica (beninteso, non l’unica scuola ebraica del quartiere e della città) intitolata al celebre giurista e senatore Vittorio Polacco: davanti all’ingresso, in prossimità degli orari di inizio e di fine delle lezioni, è possibile osservare i giovani alunni indossare la kippah, il tradizionale copricapo a forma di zucchetto, riservato ai maschi ebrei.
In effetti, si notano parecchi uomini che indossano la kippah (oltre a qualche signora con il tichel, una sorta di foulard che le donne ebree sposate osservanti portano sul capo in segno di modestia, o “tzniut“), regalando la piacevole impressione di trovarsi in una “città nella città”, che mostra nella propria purezza una delle mille sfaccettature di Roma.

Via del Tempio è inframezzata da via Catalana, che da un lato costeggia la sinagoga e dall’altro immette nella storica piazza delle Cinque Scole. Un nome curioso, nato dalla presenza, in passato, di cinque edifici di culto (con annessa scuola ebraica): la Scola Nova, la Scola Siciliana, la Scola Castigliana, la Scola del Tempio e la Scola Catalana.
Al centro della piazza sorge l’antica Fontana del Pianto, ivi installata a metà del Cinquecento su ordine di papa Gregorio XIII. La denominazione, per quanto sembri richiamare il doloroso passato degli ebrei romani, si deve in realtà alla prospiciente Chiesa di Santa Maria del Pianto.
Proseguendo, si giunge nel punto d’incontro tra via del Portico d’Ottavia e via di Santa Maria del Pianto. Oltre, una serie di suggestivi vicoli conducono in piazza Mattei, ornata dalla graziosa Fontana delle Tartarughe.
Risalta la consistente presenza nel quartiere ebraico di ristoranti kosher, oltre che di altre attività alimentari, ma anche di alcuni negozi di abbigliamento. Quest’ultima è una delle attività storiche degli ebrei romani, nata allorché la citata bolla Cum nimis absurdum vietò loro di esercitare commerci, ad esclusione della vendita di abiti usati e di stracci.
Un percorso nella storia di Roma: il Portico d’Ottavia
Da piazza Mattei si percorre via di Sant’Ambrogio, la quale, con un andamento a serpentina, riporta in via del Portico d’Ottavia.
Il Portico, che sorge tra il Tempio Maggiore e il Teatro di Marcello, è ciò che rimane del complesso monumentale eretto in epoca romana per racchiudere gli antichissimi templi dedicati a Giunone Regina e a Giove Statore ed edificati nel II secolo a.C. Sul finire del I secolo a.C., Ottaviano eresse il complesso, costituito da un fine colonnato culminante nel portico, che dedicò alla sorella Ottavia minore (a propria volta moglie del condottiero e triumviro Marco Antonio, da questi abbandonata per la celebre Cleopatra).
Luogo estremamente suggestivo, ove sull’anima ebraica della Capitale si affacciano i fasti dell’antica Roma, il Portico ospitò lo storico mercato del pesce di Roma dal Medioevo al 1885, quando fu trasferito in via di San Teodoro.

Una piccola parentesi tra i sapori della cucina ebraica romana
Normalmente, le rubriche culinarie si lasciano in fondo all’articolo. Ma in questo caso, dopo aver parlato del mercato del pesce, credo sia giusto introdurre l’argomento.
Sì, perché la presenza di tale luogo in prossimità del Ghetto, portò alla nascita di una delle ricette tradizionali della cucina ebraica romana: il brodo di pesce. Oggi è uno dei piatti più prelibati e ricercati dai cultori del gusto. Ma non nacque come tale.
Allo stereotipo degli ebrei ricchi e pieni d’oro, nei secoli addietro si contrapponeva la dura realtà dei ghetti, incluso quello romano, popolati per lo più da persone ridotte in miseria. Al punto da non riuscire neppure ad acquistare il pescato venduto presso il Portico. Ecco che allora le donne ebree romane solevano raccogliere gli scarti della pulitura degli animali (soprattutto lische e teste, ma anche pesci destinati ad essere gettati perché meno richiesti o di bassa qualità), poi cotti in acqua, creando un brodo dal sapore appetitoso.
Per rimanere in tema di prodotti ittici, l’antico Ghetto offre pure gli ottimi aliciotti con l’indivia, tortini a base di tale ortaggio e di acciughe. Anche questi ultimi nascono – tanto per cambiare – da un’assurda restrizione imposta agli ebrei nel 1661: quello di consumare esclusivamente il più economico pesce azzurro!
Gli ebrei romani vantano, poi, una superba tradizione dolciaria: possono citarsi i tortolicchi (una sorta di biscotti) e la nocchiata (torrone a base di noci, nocciole e mandorle fritte nel miele).
Ma il piatto più celebre della cucina ebraica romana è, senza dubbio, il carciofo alla giudìa. Realizzata con le “mammole”, cioè i carciofi cimaroli privi di spine, la pietanza è ottenuta previa frittura, che conferisce agli ortaggi un colore dorato, una gradevolissima fragranza e un sapore eccellente.
Dove gustare queste (e altre) prelibatezze? L’antico Ghetto (specie via del Portico d’Ottavia) abbonda di ristoranti, forni e pasticcerie. E la generalità degli stessi rispetta nella cucina le regole della kasherut, il complesso di norme che stabiliscono quali cibi siano adatti al consumo da parte degli ebrei, e attraverso quali metodi di macellazione e cottura.
Il cibo realizzato in conformità a queste regole è detto kosher (o kasher). Il quale, ultimamente, si sta diffondendo anche ben oltre le comunità ebraiche del mondo, data l’assenza, tra gli altri, di carne di maiale e lattosio.
I ristoranti ebraici romani realizzano, seguendo la kasherut, anche altri cibi tradizionali della cucina romana. La celebre carbonara, ad es., è preparata sostituendo alla pancetta il guanciale di manzo (ovviamente kosher), per un risultato eccellente.

Le Chiese del Ghetto
Sorgendo nel centro mondiale della cristianità, anche il Ghetto ospita più edifici di culto cattolici. Uno s’incontra immediatamente provenendo da Ponte Fabricio: è la quattrocentesca Chiesa di San Gregorio della Divina Pietà (nota anche come “San Gregorio al Ponte Quattro Capi”, in riferimento ad un’altra denominazione di Ponte Fabricio).
Un altro si trova in prossimità del Portico d’Ottavia, ed è l’antichissima Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria (altra testimonianza della presenza dell’ex mercato del pesce), addirittura risalente all’VIII secolo.
Infine, in prossimità di Piazza Costaguti, sorge la piccola Cappella di Santa Maria del Carmine e del Monte del Libano, meglio nota come Tempietto del Carmelo, edificata alla metà del Settecento, ma da diverso tempo sconsacrata.
I tre edifici furono fra i luoghi che, per decenni, vennero utilizzati nel tentativo di cristianizzare gli ebrei romani: a costoro, infatti, a partire dal 1572, fu imposto di assistere, per giunta di sabato, alle cosiddette “prediche coatte”.
Non a caso, la Chiesa di San Gregorio presenta sulla facciata un’iscrizione in ebraico e in latino, riportante un passo del Libro di Isaia (65:2-3):
“Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle;
essi andavano per una strada non buona,
seguendo i loro capricci,
un popolo che mi provocava
sempre con sfacciataggine”.
Ma, in tre secoli, gli ebrei convertitisi a seguito di questa grottesca iniziativa furono pochissimi: soprattutto per la forza della propria fede, ma anche per il ricorso a singolari espedienti per non udire le parole dei predicatori, quali batuffoli di cotone o gocce di cera nelle orecchie!
La vicenda fu, peraltro, riprodotta dal celebre regista Luigi Magni nel film “Nell’anno del Signore” (1969), allorché uno sprezzante predicatore è fronteggiato con coraggio e fermezza dalla protagonista Giuditta (ottimamente interpretata dalla grande Claudia Cardinale).
Purtroppo, la Chiesa trovò altri strumenti per raggiungere lo scopo (anch’essi menzionati nella citata pellicola). Molti bambini ebrei venivano rapiti ai propri cari e forzatamente battezzati. Da quel momento, venivano inibiti da qualsiasi contatto con la famiglia d’origine e un eventuale loro ritorno alla fede ebraica li avrebbe resi apostati e passibili di pena capitale!
Nel cuore religioso dell’antico Ghetto: il Tempio Maggiore
Maestoso ed elegante è il cuore del quartiere ebraico romano, rappresentato dallo splendido Tempio Maggiore. Edificato all’inizio del Novecento e inaugurato nel 1904, rappresenta la principale (ma non l’unica) sinagoga della Capitale.
Eclettica opera degli architetti Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa, il Tempio presenta un aspetto monumentale, con pareti di color giallo sabbia caratterizzate da vetrate poste tra colonne, e culmina con una grande cupola a base quadrata.

L’interno offre uno spettacolo mozzafiato, grazie alle vaste dimensioni (si tratta di uno dei più grandi edifici di culto ebraici d’Europa), nonché alle decorazioni e ai giochi di luce, che sembrano proiettare il visitatore in una dimensione parallela.
All’interno, la grande navata centrale e le due laterali più piccole ospitano le panche riservate ai maschi. Sopra le navate laterali e sopra l’ingresso sorge invece il matroneo, per le donne.

Sul lato rivolto ad est (in direzione di Gerusalemme), in fondo alla navata centrale, si erge l’imponente Aron ha Kodesh (non l’unico del Tempio, essendovene altri due più piccoli, provenienti dalle vecchie Scole, in fondo alle navate laterali), tipico arredo delle sinagoghe, deputato a custodire i rotoli (sefarim) della Torah.
L’Aron è contornato da una piccola lanterna (tradizionalmente sempre accesa e per questo detta Ner Tamid, cioè “luce eterna”) e da una serie di splendidi esemplari di menorah (il candelabro ebraico a sette bracci).

Sulle pareti, finemente decorate con variopinti fregi tra cui svettano iscrizioni in ebraico, non compare alcuna immagine sacra. Ciò è dettato dall’aniconismo ebraico, che a propria volta nasce da una serie di precetti contenuti nella Bibbia. Tra cui:
“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
(Esodo 20:4-5)
A fianco della grande rilevanza religiosa del luogo, il Tempio Maggiore è anche il simbolo del rinnovamento dei rapporti tra gli ebrei e i cristiani. Fu qui che, il 13 aprile 1986, papa Giovanni Paolo II compì la prima storica visita di un pontefice in una sinagoga, definendo gli ebrei i “fratelli prediletti” e i “fratelli maggiori” dei cristiani.
Pure i due successivi papi (Benedetto XVI, il 17 gennaio 2010, e Francesco, sei anni dopo esatti) avrebbero varcato le soglie del Tempio Maggiore. In un’epoca di profondo rinnovamento inaugurata dalla dichiarazione Nostra Aetate, con cui nel 1965 papa Paolo VI aveva rinunciato ad ogni generale accusa di deicidio sul popolo ebraico e condannato senza riserve l’antisemitismo. Ponendo, finalmente, anni luce di distanza con l’era delle “bolle infami”…
L’incontro con la cultura e la storia del Ghetto: il Museo ebraico
Nel retro del complesso del Tempio Maggiore, dal 1960 sorge il Museo ebraico di Roma, meta assolutamente imperdibile per comprendere appieno la cultura e la storia giudaica non solo della Capitale. Peraltro, è da qui che si accede anche per le visite guidate del Tempio Maggiore.
Il Museo, visionabile previo acquisto di un biglietto e con la possibilità di usufruire di un’audioguida, si estende su una serie di sale (sette in tutto), ognuna dedicata ad una tematica specifica. Un guardaroba con mirabili tessuti rinascimentali apre alla sala che ripercorre la storia, sin dall’antichità, della comunità ebraica romana.
Per chi è interessato alla scoperta delle festività ebraiche non manca una sala contenente scritti e altri elementi religiosi. Ma, soprattutto, è presente un’altra piccola sinagoga, il “Tempio spagnolo”, con arredi e altri oggetti provenienti dalle antiche Cinque Scole.
La vita giudaica è ricostruita anche con la presenza degli oggetti di ogni giorno, che testimoniano ancor più quella reciproca solidarietà e quel fiero attaccamento alle proprie tradizioni che permisero agli ebrei romani di sopravvivere a secoli di trattamenti degradanti.

Le “ferite” dell’antico Ghetto: la vergogna della Shoà e l’orrore del terrorismo
Restiamo ancora nel Museo, per entrare nella sala dedicata all’epoca delle leggi razziali e della Shoà.
Sotto una gigantografia recante le foto degli ebrei deportati da Roma tra il 1943 e il 1944, figurano oggetti e scritti lasciati da quanti vissero quei tragici eventi, nonché documenti pubblici, giornali dell’epoca e persino una divisa da deportato, oltre ad filmato che ricostruisce una delle pagine più lugubri della storia del mondo.
Arduo non commuoversi davanti alle lettere esposte.
Arduo non venir pervasi dalla tristezza alla vista di quei volti dalle bocche sorridenti e dagli occhi colmi di voglia di vivere.
Arduo non provare sdegno al pensiero che, tutt’oggi, esiste chi asserisce che simili drammi non siano mai esistiti o che osanna la memoria dei carnefici che ne furono fautori.

L’episodio più cruento fu il rastrellamento del Ghetto di Roma, compiuto dagli occupanti nazisti tra l’alba e il primo pomeriggio di sabato 16 ottobre 1943. Ad ordinarlo fu il boia Herbert Kappler, che si era fatto precedentemente consegnare dagli ebrei romani 50 chilogrammi d’oro dietro la falsa promessa della salvezza.
In circa nove ore, la Gestapo prelevò 1259 persone. Condotte al Collegio militare in via della Lungara, due giorni dopo 1023 di loro furono portate alla Stazione Tiburtina. Da qui furono caricate su vagoni per il bestiame e inviate al campo di concentramento di Auschwitz, ove il convoglio giunse il 22 ottobre.
Solo 16 avrebbero fatto ritorno (15 uomini, una donna e nessun bambino).

L’orrore di quello che passò alla storia come il “sabato nero” si percepisce ancor oggi per le strade (non solo del Ghetto, ma persino degli altri rioni vicini). Passeggiando per le strade si notano in più punti placche d’ottone murate sui marciapiedi. Trattasi delle “pietre d’inciampo”, frutto di un’iniziativa nata negli anni ’90 in Germania (ove sono note come Stolpersteine) e diffusasi in gran parte dei Paesi europei teatro di crimini nazisti. Le pietre sorgono sui marciapiedi in prossimità di quelle che furono le ultime abitazioni dei deportati: di essi indicano il nome e il cognome, nonché la data di nascita, il luogo di deportazione e, ove conosciuti, il luogo e la data di morte.

Roma ospita attualmente quasi 250 pietre d’inciampo. Ma i rastrellamenti operati dai nazisti durante i mesi di occupazione della Capitale portarono alla scomparsa di 2091 persone: un sacrificio che, il 16 ottobre 2003, in occasione del sessantenario del rastrellamento, fu omaggiato dallo Stato italiano con il conferimento alla Comunità Ebraica Romana della medaglia d’oro al valor civile.
La Shoà non annientò, come sperato dai nazifascisti, la presenza giudaica nella capitale italiana: al contrario, gli ebrei romani riuscirono a riprendersi da quella tragedia.
Ma il male non aveva ancora cessato di colpirli. Lo avrebbe fatto ancora un mattino, ancora di sabato, ancora in un giorno di ottobre. Precisamente, il 9 ottobre 1982. Stavolta ad attaccare civili inermi fu un commando terrorista palestinese, i cui membri attesero la fine di una funzione religiosa per scaricare sui fedeli, che uscivano dal Tempio Maggiore, raffiche di mitra e bombe a mano. Il tutto per cinque lunghissimi minuti. L’attentato provocò il ferimento di quaranta persone e la morte di un bambino, il piccolo Stefano Gaj Taché, di appena due anni.
Sul luogo di quell’orrendo crimine, di fronte al Tempio Maggiore, all’angolo fra via Catalana e via del Tempio, dal 2007 è presente una lapide commemorativa.

Conclusioni
Questo è l’articolo più lungo che abbia scritto finora. Ed è anche quello – senza togliere nulla agli altri – che mi ha coinvolto maggiormente.
Di fronte alle discriminazioni subite dagli ebrei a Roma (e non solo) nel corso dei secoli per opera della Chiesa ho provato, da cattolico, autentico imbarazzo.
Di fronte alle lettere, alle foto e alle storie dei deportati, alle pietre d’inciampo e al memoriale al piccolo Stefano Gaj Taché ho provato autentica tristezza.
Eppure intorno a me si apriva un quartiere brulicante di vita. Persone squisite, ospitali e sorridenti. Negozianti e ristoratori dalla grande cordialità. Adulti pronti a dare qualsiasi informazione. Bambini che uscivano gioiosi dalla Scuola ebraica. E che sprizzavano serenità, nonostante la presenza, in alcuni punti, di forze armate ivi collocate per ragioni di sicurezza.
E una domanda mi è sorta spontanea: come un popolo, che già esisteva allorché i faraoni edificavano le piramidi e i babilonesi i giardini pensili, ha potuto sopravvivere fino ad oggi malgrado le deportazioni, le discriminazioni, le persecuzioni e i pregiudizi d’ogni tipo patiti pressoché ovunque la Diaspora ne abbia disperso i membri?
Non pretendo di conoscere la risposta. Ma mi sovvengono gli elementi che più volte ho notato tra gli ebrei romani di oggi e che ho intuito, leggendone la storia, in quelli che, generazione dopo generazione, hanno permesso alla comunità ebraica di Roma di vivere per oltre venti secoli, sino ai nostri giorni: uno spirito indomito, un’incrollabile fede e una forte fratellanza.
Credo adesso di comprendere appieno l’essenza di quanto, nel 1933, la poetessa tedesca Gertrud Kolmar scriveva in “Noi ebrei”, mentre attorno a sé la Germania era appena entrata nel dodicennio di follia hitleriana:
“Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo”.
Ed anche generosità e indulgenza, malgrado tutto, verso quei “gentili” (come gli ebrei chiamano i non ebrei) che sempre tali non furono.
Nonché piena capacità d’integrazione: si parla di “popolo ebraico”, ma gli ebrei romani (come quelli del resto del Paese) fanno prima di tutto parte del popolo italiano. Tanto gli ebrei italiani hanno dato alla propria Patria: il sangue versato nel Risorgimento e nelle guerre mondiali, l’impegno e il duro lavoro, una cultura plurimillenaria e alcune tra le più incantevoli tradizioni.
Per questo, una visita a quello che fu l’antico Ghetto di Roma, cuore di una delle più grandi comunità giudaiche occidentali (circa quindicimila membri), è consigliata non solo a chi è affascinato dall’ebraismo. Ma anche, e soprattutto, a chi vuol scoprire uno dei tasselli più puri e genuini di quel mosaico di culture, tradizioni e memorie che hanno creato l’Italia.
Dedico un ringraziamento particolare alla signora Irit Levy, responsabile dell’Ufficio comunicazione ed eventi del Museo Ebraico di Roma, per i chiarimenti e le spiegazioni dedicatimi con grande cordialità e disponibilità per la realizzazione di questo articolo.
È vietata la riproduzione delle immagini realizzate all’interno del Museo Ebraico e della Sinagoga.
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Cari amici, grazie a voi per il vostro bellissimo commento.
Sono molto lieto che il mio articolo vi abbia guidato in questa zona così bella e genuina di Roma.
Anche per me, nonostante sia appassionato di cultura ebraica, l’ex ghetto della Capitale è stata una scoperta piuttosto recente.
E spero davvero di contribuire a farlo scoprire a chi, come voi, viaggia non limitandosi ad osservare ciò che vede, ma lo vive anche con il cuore. Vi auguro uno splendido weekend!