Cocullo e la festa dei Serpari
“Li ciaralle sono ispirati…le serpi agitate, oggi sarà gran festa”
A metà tra la Valle Peligna e la Marsica, in Provincia dell’Aquila, c’è un paesino di circa 264 abitanti, nascosto tra una vegetazione verde e rigogliosa della Valle del Sagittario con la quale sembra entrare in simbiosi, si raccoglie su un monte da cui sorveglia la piana circostante: è Cocullo, un paese di tradizioni antiche, uno dei più particolari borghi d’Abruzzo.
Nel suo splendido isolamento, Cocullo è sospeso nel tempo: qui storia e natura si abbracciano e il visitatore si sorprende a rallentare, per ammirare i colori forti e vivi dell’anima incantata del paese.
Le origini del borgo non sono certe: il suo nome potrebbe significare “guardiano del canale”, come succedeva in Mesopotamia con il gugallu. Oppure potrebbe venire da un antico insediamento pre romano chiamato Koukulon. A conferma di questa ipotesi, numerosi oggetti dell’epoca sono stati trovati in zona: bronzi raffiguranti Ercole, diverse necropoli che si fanno risalire al periodo fra il IV e il I secolo a. C. Probabilmente, in età pre-romana la posizione dell’insediamento era nella vallata, mentre quella attuale risale all’epoca medievale.
Il borgo conserva ancora la sua struttura medievale. La piazza principale, si trova in una posizione rialzata, da cui osserva un labirinto di vicoli tortuosi e acciottolati: di fronte si trova l’antica Chiesa della Madonna delle Grazie del XIII secolo.
Nel centro storico di Cocullo la torre medievale in muratura, costruita con blocchi di pietra di base quadrata, è stata adattata poi come campanile della Chiesa di San Nicola: già citata nel XIV secolo, è stata danneggiata nel terremoto della Marsica del 1915. Di particolare importanza è lo stemma che si trova sopra il rosone della chiesa: uno dei pochi elementi originali della facciata ancora ben visibile.
La cinta muraria che racchiude tutto il rione di San Nicola è particolarmente importante: cinge infatti anche il resto del centro storico, caratterizzato da viuzze tortuose, bifore e botteghe medievali, portali e case signorili dei secoli scorsi tra cui Casa Marano e Casa Squarcia. Le cinte murarie finivano orginariamente alle tre porte: Porta Ruggeri, Porta Renovata e Porta di Manno. Qualche traccia è ancora visibile, inoltre, dell’antico Castello dei Conti di Celano, assegnato succesivamente ad Antonio Piccolomini nel 1463.
La chiesa più importante per Cocullo è sicuramente San Domenico: costruita nel XVII secolo è stata completamente rifatta nel XX secolo. Qui, il primo maggio di ogni anno, si svolge la Festa dei Serpari.
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Chi sono i Serpari e in cosa consiste questo rito?
Il Rito dei Serpari è uno di quei momenti collettivi che stupisce non solo chi non l’ha mai visto, ma anche chi è abituato a tali simbologie nelle tradizioni popolari: per dirla in breve, anche un etnologo rimarrebbe a bocca aperta. Cocullo è, ogni anno, una delle mete più visitate da pellegrini e curiosi, turisti e studiosi, tutti per assistere al più famoso evento.
Il Rito dei Serpari è legato alla figura di San Domenico di Sora, monaco dell’XI secolo, protettore dagli animali selvatici e dai morsi di serpente. La festa intreccia elementi sacri a elementi profani: il rito inizia con i serpari che alla fine di marzo si recano fuori paese in cerca dei serpenti. Una volta catturati, vengono custoditi con attenzione in scatole di legno per 15-20 giorni, e nutriti con topi vivi e uova sode.
Una festa legata all’antico culto della dea Angizia: nell’Eneide, infatti, è presente la figura di Umbrone, giovane serparo dei Marsi, l’antica popolazione dell’Abruzzo. Alleato di Turno nella guerra contro Enea, sarà ucciso dal capo troiano in persona.
Secondo la tradizione locale, il santo cavandosi il dente e donandolo alla popolazione di Cocullo, fece scaturire in essa una fede che andò a soppiantare il culto pagano della dea Angizia, protettrice dai veleni, tra cui quello dei serpenti. Il dente di San Domenico, con probabile allusione al dente avvelenatore del serpente, diede, forse, l’idea che fece nascere la fede che portò alla festa in onore del santo.
Il monaco benedettino di Foligno attraversò il Lazio e l’Abruzzo fondando monasteri ed eremitaggi: a Cocullo si fermò per sette anni, lasciando un suo dente e un ferro di cavallo della sua mula, che divennero delle reliquie. Per questo la mattina della ricorrenza, nella chiesa a lui dedicata, i fedeli tirano con i denti una catenella per mantenere i denti stessi in buona salute e poi si mettono in fila per raccogliere la terra benedetta che si trova nella grotta dietro la nicchia del Santo.
I serpenti sono dunque al centro di questo antico rito. I cocullesi chiamano i serpari, “ciaralli”: degli incantatori di rettili, eredi di quelli che un tempo erano ritenuti immuni dai morsi e dal veleno dei serpenti. Nell’antica Roma erano i “marsus”, maghi capaci di ordinare agli animali striscianti di stare quieti.
La cerimonia si svolge fra riti propiziatori e superstizioni: ad esempio, quello di “testare” i propri denti suonando con la bocca la campanella della chiesa, cosa che mette il fedele al riparo da infezioni e carie. Oppure la terra benedetta che il fedele porta a casa, che salva le colture dagli insetti.
Un volta catturati i serpenti, si portano in festa: il giorno della celebrazione, infatti, santo, prelati, cocullesi e visitatori vengono “adornati” con i serpenti: naturalmente vivi, ma svuotati dal veleno e soprattutto storditi dagli ormoni, data la stagione che precede l’accoppiamento. In ogni edizione, migliaia di pellegrini devoti, curiosi e turisti accorrono in questo minuscolo borgo per assistere allo spettacolo unico della statua adornata da serpi che si aggrovigliano intorno all’immagine sacra.
Il santo viene portato in processione con le serpi intorno a petto e collo: un simbolo del dominio dell’uomo sull’animale. Ma non è tanto il rito in sé a colpire, quanto la fervente partecipazione dei cittadini di Cocullo che rende questa festa singolare ed emozionale: anche per questo, un così piccolo borgo è riuscito a sopravvivere nel tempo, evitando l’abbandono che dissolve nel nulla la gran parte delle comunità montane abruzzesi.