
Il Carnevale di Gavoi: sa Sortilla ‘e Tumbarinos
Il carnevale in Sardegna, si sa, ha un significato particolare. Tra tutti è il momento in cui il legame con riti, le cui origini si perdono nel tempo, si fa più forte. E’ così che troviamo in tanti centri dell’isola maschere antropo e zoomorfe e il comune archetipo della lotta tra uomo e animali.
Tra i tanti suggestivi e meritevoli carnevali, però, ve ne è uno che si distingue in particolar modo. Si tratta di un carnevale che non segue copioni predefiniti, che non presenta maschere particolari (se non quelle nate dalla creatività e dall’ingegno dei singoli), né movimenti da seguire o passi da rispettare. Non vi è nemmeno una unica sfilata.
Siamo in piena Barbagia, a Gavoi. E quel che troviamo al Carnevale di Gavoi è la musica. Una musica fatta di vibrazioni di tamburi, note di flauti di canna, acuti di triangolo e armonie di organetto. Gli strumenti tradizionali della cultura gavoese diventano i principali protagonisti di una delle feste più amate e attese del paese barbaricino.
Musica di strumenti, quindi, ma anche di poesie cantate, filastrocche tramandate da generazioni e risate. Musica fatta da gruppi variegati e spontanei di persone che invadono le strette vie del centro suonando quei tamburi, quei flauti, quei triangoli.
Il pungente freddo di una giornata invernale viene spezzato dalle prime note di isolate percussioni. Col trascorrere dei minuti il suono diviene talmente ampio da avvolgere e scaldare corpi e animi (ovviamente contribuisce anche il buono, sano e corposo vino).
Non si conoscono le origini di questo carnevale. Quel che è certo è che il grande “ritrovo dei tamburini” – sa Sortilla ‘e tumbarinos – derivi da ciò che accadeva un tempo: a partire dall’epifania, piccoli gruppi più o meno mascherati si ritrovavano nelle vie del paese per suonare, cantare e ballare. Al centro delle mascherate vi era la personificazione del Carnevale, che talvolta simboleggiava anormalità e emergenze umane negative: il fantoccio poteva cioè riprodurre la figura di un compaesano segnata da estrema povertà o stupidità o disonestà o stranezza.
Tali elementi davano vita a sequenze cerimoniali del tutto singolari: il giovedì precedente il giovedì grasso veniva portato in giro, consenziente, un uomo molto povero, del paese o di una località vicina, vestito di stracci e col volto annerito, detto su mortu de harrasehare – il Morto di Carnevale. La visita de su mortu era cosa gradita e attesa: egli veniva introdotto nelle case, adagiato per terra, in cucina. Seduti in cerchio vicino al focolare, gli uomini al seguito inscenavano il compianto funebre. La maschera della vedova di Carnevale iniziava a cantare sos mutos de harrasehare – i canti poetici di carnevale; seguivano i canti delle figlie e man mano degli altri al seguito. I mutos erano improvvisati anche in onore delle famiglie ospitanti che ricompensavano la visita con doni (dolci e vino). Quei canti, quei balli e quelle musiche proseguivano poi nelle vie e piazze, che divenivano teatro di ulteriori bevute e bagordi.
Col passare del tempo, le piccole compagnie si sono riunite in un’unica grande piazza in un giorno prestabilito – il giovedì grasso (Jovia Lardajola), appunto; il poveraccio che personificava il Carnevale è stato sostituito definitivamente da fantocci – Zizzarrone e MariaRosa – e un’intera comunità ha deciso di vivere unita quell’atmosfera, facendo sentire la propria voce, il proprio ritmo, la propria musica, prima di disperdersi tra le vie e rincontrarsi, ancora una volta, al centro del paese e nei bar.
Musica, che coinvolge tutti, senza alcuna distinzione di età o sesso, o per l’esperienza e la capacità di suonare.
Suoni e musica che, se vogliamo dare un significato, aiutano a scacciare il buio della stagione dormiente, le preoccupazioni e le fatiche della vita quotidiana e risveglia animi e natura, quella natura cara e fondamentale per la vita della collettività.
Non ci resta quindi che prendere su tumbarinu e suonare.
Appuntamento al 4 febbraio!

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